GIARDINARE.IT - CAPITOLO 4
Ogni buca è come la prima buca
di Mariangela Barbiero
Eravamo rimasti ai 5 metri cubi di pura argilla che bloccavano l’accesso alla casa. La prima cosa da fare era dunque di distribuirla in giardino, tutto il contrario di quel che si dice un buon inizio. Non mi restò che imparare da subito a migliorare il terreno per renderlo ‘una buona terra da giardino’ (loam soil, in inglese). Che in realtà a un neofita non dice niente, tipo quando in una ricetta di cucina scrivono ‘quanto basta’…
Cominciai con la sabbia di fiume che spargevo sulle aiole e che acquistavo (a trenta litri alla volta) in un ‘fondo’: un fondo è a Trieste un punto vendita costituito da un grande cortile e un piccolo ufficio, dove trovi tutti i materiali edilizi, dal cemento, alla sabbia, ai mattoni, ecc. ecc. Luogo importante per chi affronta la strutturazione di un giardino. La sabbia col tempo sarebbe penetrata nel terreno, alleggerendolo. Sì, lo so, col tempo e con la paglia… ma di fronte a un problema io devo sempre fare assolutamente qualcosa, sennò non mi do pace.
Il giardino era costituito da aiole bordurate da pietre carsiche. La prima cosa che avevo pensato a voce alta, all’acquisto della mia nuova abitazione, era di eliminare le aiole, creare un bel prato attorno alla casa con alberi e arbusti sullo sfondo, come usano in Germania, dove ero vissuta per qualche tempo: non avevo ancora mai visto giardini inglesi dal vero. Avevo visitato la Gran Bretagna in lungo e in largo, ma i giardini non erano mai stati nel programma della mia famiglia.
Ritornando alle mie riflessioni, esse erano state accolte con costernazione dall’ormai ex-proprietario. Mi disse, accorato, che aveva scelto in Carso le pietre una per una. Capperi, pensai, tanta fatica per un risultato così orrendo! Ma non aggiunsi altro.
Tuttavia, nell’inverno del 1989, mentre a cavalcioni della finestra grattavo la vernice dagli infissi, osservavo il giardino dall’alto, davanti alla facciata ovest della casa, composto da una peschiera e quattro aiole, quello che prima di leggere il libro di Guido Giubbini “ Il Giardino degli equivoci” ero convinta fosse il giardino persiano per eccellenza. E l’idea mi piacque. Un giardino persiano. Io avrei avuto un giardino persiano! Mi parve cosa di una bellezza ultraterrena che inoltre ben si adattava a una vecchia casa. Avrei seguito gli insegnamenti di Gertrude Jekyll, una struttura forte da mascherare con un overplanting: ci avrei messo un montón di piante, in modo che ricadendo oltre i bordi nascondessero le famigerate pietre. La mia immaginazione lavorava anch’essa con fervore. E cominciai a riflettere seriamente sul disegno del giardino e la seconda cosa che pensai era che un buon disegno richiedeva un uso morigerato di materiali, non più di tre, mi dissi. Non potendo e non volendo usare ulteriore pietra carsica, ça va sans dire, il resto lo avrei fatto con mattoni e cemento. E a questa linea di condotta mi attenni sempre.
Fu una fortuna che l’inverno fosse così mite (era iniziato il riscaldamento globale?). In giardino fiorivano azalee e persino bocche di leone e infatti il 6 di aprile 1990, quando finalmente traslocammo, il glicine era già sfiorito.
Il legno originario degli infissi, coperto da almeno 7 strati di vernice, era rimasto perfetto. L’architetto che seguiva i lavori mi aveva spiegato che o il lavoro lo facevo io oppure avrei dovuto optare per nuove finestre, perché a farlo fare agli operai mi sarebbe costato una fortuna. Lo feci e mi ci divertii molto. Mio marito invece ne era spaventato. Mi raccontava di quante persone, anche famose, erano morte a causa dei solventi. Io usavo in prima battuta una pistola a caldo, e come finitura i solventi. Andavo nella mia nuova casetta tutti i fine settimana. La domenica sera tornavo a base e mettevo le tute in lavatrice. Una volta capitò che, ripulita e rivestita a modino, non riuscissi più a trovare gli occhiali. Li avevo forse lasciati nella tasca della tuta? Preoccupatissima, spensi e vuotai la lavatrice. Niente. Alla fine li ritrovai ed ero talmente sollevata che, con aria affabile e condiscendente, chiesi a mio marito quali fossero i primi sintomi dell’intossicazione da solvente: “Si perdono gli occhiali!!!”, mi rispose con voce cavernosa.
Tornando alla terra, certo non bastava buttare la sabbia che col tempo sarebbe scesa in profondità. Ma siccome non avevo soldi per fare tutto in un colpo - e mio marito mi aveva detto che lui aveva già dato, col mutuo, e che al giardino dovevo pensarci io - feci la scelta più ovvia: dove decidevo di piantare qualcosa facevo un grande buco e tutta la terra che ne usciva la mescolavo con del terriccio universale. Non era una faccenda rapida, tuttavia efficacissima. E anche l’unica occasione in cui usassi i guanti, dato che disintegrare grossi grumi di terreno argilloso richiedeva un buon lavorio di mani. Per il resto, nonostante le proteste del mio solito marito, o meglio le solite proteste di mio marito, non ho mai voluto usarli perché non consentono quella sensibilità per me indispensabile per trattare con delicatezza le mie creature (certo che sì, ho fatto e continuo a fare ogni dieci anni l’antitetanica). E la mattina, appena lui usciva di casa, belle immersioni nella candeggina il cui odore lui trovava rivoltante (io no). E ti ritrovi le mani bianchissime e morbide come il culetto di un bambino, e la sera, al suo ritorno, la puzza non c’era più: tutti contenti.
La seconda risposta è perché no la doppia vangatura: perché tutto quello che succede e deve succedere avviene nei primi 50 cm, dove appunto i peli radicali assorbono i nutrienti. Le radici più grosse servono solo a trovare l’acqua e ad ancorare la pianta al terreno. Ma una pianta può assorbire i nutrienti solo se la terra è fertile, se cioè contiene gli indispensabili microrganismi e per ottenere questo è necessario arricchire il terreno ogni anno con concime organico (la parola chiave è appunto ‘organico’). Se noi dessimo alle piante solo concimi chimici, alla fine il terreno diverrebbe sterile. Vi parlerò della concimazione del mio giardino la prossima puntata, che sarà anche il buon momento per pensarci.
Ma torniamo alla doppia vangatura, perché è sbagliata? Perché i microrganismi che ci interessano sono di due tipi: aerobi e anaerobi. I primi per vivere hanno bisogno di ossigeno, i secondi invece vivono in assenza totale di O2. Quando si vanga in profondità, si mescolano i vari strati di terra e si possono portare in superficie quelli anaerobi e viceversa seppellire gli aerobi. Per ottenere che il terreno si riassesti e torni vitale deve passare almeno una quarantina di giorni. Piano B: si ripone la terra scavata in tre mucchi separati, in uno ci metteremo lo strato di terra superiore, in un altro quello mediano, e infine quello in fondo alla buca: io consiglio sempre di fare buche belle grandi, molto più grandi di quello che viene suggerito di norma, diciamo almeno il doppio. Siccome sono di piccola statura, non potendo fare buona leva sulla vanga o sul forcone, uso di preferenza il piccone e dopo aver scavato il necessario per poterci entrare con i piedi e con il Lato B, gratto, accucciata, le pareti e il fondo della buca con attrezzi a mia misura. Ovviamente al trapianto si rimette la terra nell’ordine in cui si è scavata.
Mio marito mi chiamava ‘vecchia talpa’. E’ sempre stata una sfida tra me e le pietre del Carso. Ancora un paio d’anni fa ho fatto una nuova buca… e ci sono caduta dentro. Ero imbarazzata perché temevo che passasse qualche vicino. Avevo difficoltà a risollevarmi, sia perché non sono più molto agile, sia perché tutt’intorno alla buca c’è ghiaia e mi doleva far forza sulle braccia. Comunque strinsi i denti e mi rimisi in piedi. Ragazzi, che soddisfazione, però: ogni buca è come la prima buca!