GIARDINARE.IT - CAPITOLO 11
Architetto paesaggista, ci si laurea o si diventa?
di Mariangela Barbiero

 

La progettazione del giardino fu eccitante, anche se fu un’emozione di cui mi resi conto anni dopo, perché in realtà ai miei occhi non stavo progettando, cercavo solo di individuare tutti i possibili pezzi di terra dove avrei potuto crescere piante senza combinare guai. Guai di che tipo? Non lo sapevo. Ero vissuta un quarto di secolo in un appartamento in affitto, con terrazza sul lastrico solare e più che fare attenzione a che la lavapiatti non allagasse un’altra volta il soffitto del mio vicino del piano di sotto, non avevo idea di cosa fosse un guaio.

Ma cominciavo a ipotizzarlo. La cosa che più mi faceva paura era l’incendio, perché ho due stanze coperte di boiserie da pavimento a soffitto e un’elegante modanatura in legno bordeaux all’esterno. Da allora il minimo segnale di fumo mi tramuta in Toro Seduto. Trent’anni fa bruciare le foglie era comune per i miei vicini, ma per fortuna e sfortuna a causa di grossi incendi vicini alle case, il Comune ha messo al bando questa pratica. Ma io sorveglio, augh! Mettere aiole a ridosso delle pareti si può fare? Coprire le pareti di rampicanti porta umidità e bestie in casa? Quanto discosto debbo stare dalla fossa biologica? A Opicina non ci sono fognature. Poiché avevamo fatto un mutuo, e pesante, il consorte non poteva permettersi spese extra a causa di mie stupidità. Questo lo tenevo sempre a mente.

Su consiglio dimostratosi corretto, feci costruire ai piedi delle pareti a sud e a est uno zoccolo di cemento molto profondo (non ricordo quanto) e largo 25 cm per l’umidità. Ho messo rampicanti dovunque possibile e non ho mai visto insetti in casa, a parte talora le formiche, da cui avevo imparato a difendermi già nell’appartamento al settimo piano: gli esploratori sono tutti eguali, a qualunque genus appartengano: farsi sette piani per morire sfinite e avvelenate, mah! E ci riprovavano.

Nella progettazione del giardino gli approcci, almeno in Italia, sono sostanzialmente tre:
1. Pianto dove mi pare e piace (80%);
2. Mi affido a un vi¬vaista (15%);
3. Mi affido a un progettista di giar¬dini (5%).

L’approccio n. 1 ha sempre esiti felici per il proprietario, e non è questione dappoco. Più o meno come nella medicina orientale, non ti guarisce da una vera malattia ma muori felice (commenti del consorte medico, ça va sans dire). Potremmo tutti raccontare di straordinari e bellissimi giardini di campagna, che gli inglesi chiamano ‘cottage garden’ e i francesi ‘jardin du curé’.
Dopo aver creato il giardino che ho chiamato ‘Parva Pulcherrima’, ora sto facendo sul lato est, dove prima entravano le macchine, un piccolo ‘jardin du curé’, o almeno a me pare così, più per suggestione, forse, visto che non ho mai frequentato parroci né al di qua né al di là delle Alpi. Il vecchio giardino ha invece un nome ‘pretenzioso’, lo so, evidentemente contavo sul nomen omen...

Approccio n. 2: Chi ha un po’ più soldi e un po’ meno idee si affida invece ai vivaisti, ma raramente gli esiti sono positivi, almeno ai mei occhi, perché un vivaista ti dà le piante che ha, fa il suo mestiere e non è uno diversamente intelligente.

L’approccio n. 3 è quello che più mi esaspera e mi incattivisce, perché di progettisti italiani ce ne sono, bravi e anche talentuosi, e ne ho conosciuti diversi, ma chi ha soldi chiama non il più bravo, ma il più costoso e possibilmente straniero.

lo il giardino me lo sono fatta da sola e ne sono molto soddisfatta, proprio come quelli dell’approccio n. 1, epperò ho avuto dei suggerimenti fantastici da Maurizio Usai, che considero un haut de gamme, un fuori serie. Non è un architetto, ma un ingegnere. Tra i migliori giovani paesaggisti che ho potuto apprezzare personalmente ci sono ingegneri e geometri, i più utili visto che possono occuparsi anche delle parti ‘hardware’, come piscine, scalinate, terrazzamenti, pozzi di drenaggio, muri, ecc., mentre la sensibilità per la progettazione degli spazi verdi è grande anche tra periti e archeologi e signori nessuno. Archeologi? Beh, la mia paesaggista preferita è Alessia lersettig, archeologa, di cui troverete presto in Rosanova articoli sui giardini giapponesi. È stata una discepola di cui sono molto fiera. Ma tornando a Maurizio Usai, che conosco da vent’anni, da prima che si laureasse, mi ha dato delle dritte impagabili, e mi sono resa conto di cosa significa ‘genius loci’. La qualità che mi ha sempre incantato è che non impone la sua firma a un giardino (tipo pisciatina di cane), ma lo rispetta e ne aumenta il carattere, per non parlare del gusto e dell’infinita conoscenza delle piante (dalle mediterranee alle alpine) e delle rose (enciclopedica).

Ma torniamo alla progettazione. Avevo dovuto eliminare un carpino nero (Ostrya carpinifolia) che sorreggeva una magnifica rosa ‘Mme Alfred Carrière’ che lo aveva ucciso ricoprendone la chioma e impedendogli cosi la fotosintesi clorofilliana. Per sorreggere la rosa ha creato un pergolato che sembra nato con la casa (1913), e a ridosso della parete dell’ex garage, ora serra, mi ha fatto fare un fontanile che più in armonia non si può. Il mio giardino non poteva essere perfetto neanche in teoria senza il fontanile, perché aveva sì un gatto (cfr. Mark Twain) ma non aveva l’acqua. In realtà la peschiera c’è ma all’acquisto era già stata interrata dal precedente proprietario che così aveva deciso per via dei suoi bambini. Ovviamente era diventata un’aiola e io non avevo mai avuto il coraggio di eliminare le piante (sono una piantocentrica). Ora il giardino ha due gatti e l’acqua e se non è perfetto è solo colpa mia.

Un altro coup de téàtre di Maurizio è stato il disegno per il rincospermo. La mia casetta ha un verone. Tutti lo chiamano patio, ma è un verone e ho scoperto che l’unica persona che, venuta a trovarmi, l’ha così chiamato è stata una mia compagna delle medie. Evidentemente la nostra prof Zwirner (moglie del famoso matematico) era una che conosceva la nostra lingua (verone: terrazzino coperto con cui termina la scala esterna nelle case di campagna). Dunque la parete esterna era coperta e totalmente vuota, dato che non potevo mettere dei vasi aggettanti e dunque pericolosi per chi saliva la scala. Avrei potuto aprire una finestra... non potevo perché la parete era una rivestita interamente da boiserie nello studio di mio marito. Ho creato allora una piccola aiola di 80 x 80 cm in un angolo, tra le pietre di Aurisina di un camminamento che costeggia il giardino da una parte e la cantina dall’altra, e va dalla scala del verone alla pergola di Maurizio. Prima delle pietre di Aurisina, c’era il cemento. Un giorno vidi apparire tra le crepe del cemento un lombrico. Mi venne un colpo: se c’erano lombrichi, c’era terra e quindi umidità e io in cantina avevo una libreria, oltre a tutto quanto si può mettere in una cantina. Comunque sia, misurai la distanza dalla fine della scala al bordo del giardino. Poi scesi molte volte le scale per vedere fin dove avrei potuto allungare il passo senza entrare nella futura aiola. Risultato: mi restavano 80 cm. Non vi annoio con altri conti, ma il risultato fu ottimale. Avrei potuto fare l’architetta. In realtà in una prossima vita farei la storica dell’arte. Ma come far arrampicare il rincospermo? Ah, ah! Avevo visto in Svizzera come fanno nei marciapiedi: fanno l’aiola più o meno piccola e ci ficcano delle barre di ferro dipinte di bianco, ficcate nel terreno e lunghe a piacere, distanti un 15 cm dalla parete e un 30 cm tra loro. Naturalmente per rampicanti sempreverdi, lo pensavo di aggiungere una barra diagonale lungo tutta la parete vuota, fino alla porta di casa. Per fortuna era venuto Maurizio a trovarmi. Guardò e disse: l’angolatura deve corrispondere a quella del passamano della scala. Ragazzi, una meraviglia è venuto. Un’idea proprio da architetto! Eppure Maurizio Usai non può definirsi un architetto paesaggista, perché non è consentito dagli architetti laureati. La laurea in architettura del paesaggio è molto recente, troppo forse per creare dei veri architetti ‘paesaggisti’...