
Episodi
come la spianatura del parco dell'ex ospedale Maddalena o
la ristrutturazione in Piazza Libertà, con
relativo abbattimento di piante secolari, trovano una
loro naturale,
anche se inascoltata, eco su queste pagine. Enumerare
però i
singoli episodi del saccheggio, perpetrato con ignorante
protervia a danno della città da speculatori e
amministratori uniti nell'infelice impresa, non basta
a dare l'immagine
complessiva di quanto regredisca mese dopo mese il paesaggio
urbano di Trieste.
La sua immagine è insidiata da interessi non sempre
confessabili, da ignave complicità e da egoismi di casta.
Gettare uno sguardo d'insieme sui fatti degli ultimi anni è sconfortante,
per quanto riguarda il ruolo delle amministrazioni comunali,
sia l'attuale che, in misura leggermente minore, la precedente.
Una veduta d'assieme serve per rendersi conto che lo stillicidio
di interventi dissennati sta (s)formando una nuova Trieste:
la città perde quotidianamente pezzi della sua identità,
il più delle volte a vantaggio di pochi o pochissimi
privilegiati, spesso unici fruitori di beni pubblici che
dovrebbero, per definizione, essere a disposizione di tutti.
Se io dovessi fornire un'immagine di quello che, concretamente,
considero la mia patria, tale immagine sarebbe quella della
linea che separa il mare dalla terra, che segna il discrimine
tra natura e cultura, tra paesaggio naturale e architettonico,
che sulle rive qualifica così significativamente le caratteristiche
morfologiche, storiche e antropologiche di questa città.
Uno
spazio esiguo che apriva alla vista amplissime prospettive,
cui
sono legati i più remoti ricordi. Miei, ma certo
anche di quasi ogni altro triestino. Provate a passeggiarvi
ora. Camminerete nello spazio compreso tra una specie di autostrada
urbana e il mare, in alcuni tratti ingabbiato oltre la rete
che difende circoli nautici privati, come quello retrostante
la pescheria e due dei tre lati (il terzo è in dirittura
d'arrivo) del molo adiacente il cosiddetto "Salone degli
incanti".
Vi farete un'idea abbastanza precisa di quale sia il sostrato
ideologico che anima coloro che hanno cura dell'aspetto della
città. Più avanti, all'imbarcadero prospiciente
piazza Unità, il brutto gruppo bronzeo dedicato al bersagliere
uscente dalle acque come un lagunare, collocato proprio sull'ombelico
della città, è un'altra dolorosa conferma dell'insipienza
di chi amministra e dovrebbe tutelare i beni architettonici,
storici, artistici, ambientali e culturali di questa città.
Non vorrei dare a queste considerazioni il senso di un aprioristico
antagonismo rispetto al nuovo. Quando però tale nuovo
assume le forme di una disordinata ed episodica rincorsa al "fare
pur che sia", ad approfittare di ogni occasione per reinventare
spazi urbani al di fuori di ogni logica linea di sviluppo nella
continuità e nel rispetto di quanto ci ha preceduto, è allora
il caso di opporsi e di dichiarare il disgusto per quanto viene
sciaguratamente producendosi. Qualche mese fa, assieme al direttore
di questa rivista, attendevamo di essere ricevuti dalla presidente
della Provincia per un'intervista. Dalle finestre della sala
d'attesa di palazzo Galatti ho fatto osservare a Luciano come
la gente che passava a piedi preferisse assieparsi sul marciapiede
del palazzo delle Poste anziché transitare per la piazza
di recente ristrutturata. Questa appariva del tutto - e giustamente
- deserta. La scelta spontanea e probabilmente inconscia dei
numerosi passanti appare rivelatrice e sfata le argomentazioni
di chi intendesse difendere anche i più vandalici interventi
urbanistici accampando questioni di gusto personale.
La distruzione di Piazza Vittorio Veneto per consentire la
creazione di un autorimessa sotterranea (privata, si capisce) è un
altro episodio del saccheggio della città cui stiamo
assistendo. Anche qui alberi divelti, anche qui architetture
anodine e posticce, anche qui lo snaturamento di uno spazio
preesistente omogeneo e coeso, anche qui l'esproprio di un
bene comune in favore dell'utilità di pochi.
Parlare della rinnovata Piazza Goldoni significa compiere qualcosa
di assai analogo allo sparare sulla croce rossa. A cominciare
dal monumento al CD che si erge nel mezzo, la piazza tagliata
in due da quel nostrano muro della vergogna, con le sue intermittenti
cascatelle, con l'alettante visione di eleganti cassoncini
di una improbabile raccolta differenziata esposti in bella
fila
sul lato probabilmente più visibile della piazza, con
i pili lignei sui quali nessuna bandiera avrebbe piacere di
esporsi allo sguardo, con le dozzine di semafori che interromperebbero
ogni velleità di passeggio ove mai a qualcuno venisse
in mente di compierlo in quello spazio ormai del tutto sequestrato
alla logica, la piazza ormai è divenuta tutt'intera
un monumento allo sforzo di deturpamento che sembra il tratto
distintivo del nostro presente.
Né lo scempio, in particolare
quello di razionalità, si arresta negli spazi meno baricentrici
e più riposti del centro città. Le laterali della
Via del Lazzaretto Vecchio cantate da Saba, per dirne una,
costituiscono un modello probabilmente unico in Europa in cui,
allargando a dismisura i marciapiedi, si è ridotta la
carreggiata ad uno stretto passaggio per impedire il parcheggio
delle automobili (e per consentire a un buffet di allestire
i tavoli all'aperto, altro illuminante esempio di trionfo dell'interesse
privato su quello pubblico).
Anche negli sporadici casi dove la mutazione urbanistica sembra
essere partorita da un pensiero meno demenziale o addirittura,
com'è nel caso di alcune isole pedonali, da un disegno
razionale e rispettoso dell'ambiente e del benessere dei cittadini,
si è provveduto a intorbidare il poco ben fatto con
vezzeggiamenti con pretesa di monumentalità e del tutto
strampalati. Vedasi la fontana all'inizio di Viale XX settembre,
vedasi i bronzei richiami ai nostri maggiori scrittori piantati
qui e là a grandezza un po' meno che naturale.
Fortunatamente
le attenzioni dei rimodellatori dei nostri spazi urbani si
limitano quasi esclusivamente a un paio d'ettari attorno
alla Piazza Unità, a riprova di una
loro visione della città di sapore strapaesano, come è testimoniato
dal fatto che, quasi fossimo un paesone di ottomila abitanti,
i principali uffici cittadini (Comune, Regione e Palazzo del
Governo) si affacciano tutti su una medesima piazza.
Fortunatamente,
la cattedrale è fuori portata.
Al di là di quel
disgraziato perimetro centrale, nella zona semiperiferica e
nelle periferie propriamente dette non si spinge lo sguardo
rapace e iconoclasta degli amministratori. Qui, al più,
sotto gli occhi di pochi residenti, si estingue quotidianamente
il poco verde superstite a vantaggio del cemento, in una silente
irrisione delle ragioni del benessere collettivo.
Poco o nulla
si è fatto negli ultimi anni, con qualche isolata sporadica
eccezione anche positiva, come ad esempio è stato il
riassetto di Piazza Puecher. Per il resto, solo parcheggi sotterranei
voluti dall'iniziativa privata, costati anni di lavoro e di
disagi per tutti a vantaggio di alcuni. Magari, com'è stato
per Piazza San Giacomo, accompagnando l'inaugurazione degli
spazi restituiti alla fruizione collettiva da qualche estemporaneo
divieto in più, come quello di condurvi i cani.
Più oltre,
nelle periferie, il perdurare
dell'assenza di piazze che costituiscono un luogo di aggregazione
sociale, quartieri di decine di migliala di abitanti privi
di qualsiasi spazio condiviso, giganteschi dormitori deprivati
ormai anche della presenza di botteghe, per lasciare posto
alla grande distribuzione che avanza con la sua razionalizzazione
di costi e di spazi, ma anche con la sua spersonalizzazione
dei rapporti umani.
Sarebbe,
tra l'altro, da chiedere conto del perché, in una
città in costante regresso
demografico da mezzo secolo e passa, si continui a costruire
casermoni periferici lasciando vuoti per decenni edifici
in posizione più centrale, com'è stato il vergognoso
caso di Cittavecchia. È così che ogni nuova
mossa dell'amministrazione comunale ingenera sospetti e aprioristiche
contrarietà, com'è nel caso del nuovo ponte
che si vuole costruire sul canale. Altro esempio di soldi
non solo
buttati, ma investiti al contrario per peggiorare l'estetica
di uno dei luoghi più caratteristici della città,
com'è evidente a chi posi lo sguardo sulla prospettiva
che dal mare conduce alla facciata neoclassica di Sant'Antonio.
Qui l'unico intervento possibile dovrebbe semmai suggerire,
com'era stato per un bel progetto dell'architetto Gigetta
Tamaro negli anni Novanta, di
prolungare fino al sagrato della chiesa
lo specchio d'acqua che oggi si vuole invece frammentare
ulteriormente con
il ripristino di un ponte a suo tempo, assai opportunamente,
cancellato dalla topografia del luogo.
In un panorama così
inquietante, l'indifferenza e la passività di larga
parte dei cittadini rispetto alla pluralità di scempi
che si vengono consumando a danno di quel bene condiviso
che è la
valenza estetica della città assume risvolti che sfumano
dall'estetica nell'etica. Un silenzio-assenso che, segnatamente
da parte del ceto intellettuale della città, sembra
giustificare la prosecuzione su questa nefasta strada
lastricata di cattivo gusto, di disprezzo per i valori della
cultura,
di pressappochismo nelle scelte urbanistiche, quando non
di connivenza con la più miope e rapace speculazione
edilizia.
Ci
piacerebbe che qualche esperto della materia, qualche illustre
accademico, qualche artista, qualche critico, qualche storico
dell'arte prendesse una risoluta posizione in difesa dei
valori anche estetici che la città racchiude in sé,
anche a costo di risultare sgradito ai manovratori. In fin
dei conti, sarebbe proprio questo il ruolo che la società assegna
loro.