GIARDINARE.IT - CAPITOLO 5
Della serie predica bene e razzola male
di Mariangela Barbiero

 

È arrivato il momento di parlare di concimazione, una cosa molto seria, ma che in realtà viene sottostimata o sovrastimata. Vediamo.

Quante volte mi sono sentita chiedere come mai la bellissima pianta che da dieci anni fioriva e fruttificava meravigliosamente da qualche tempo era stitica/rachitica. «Come e quando la concima? » chiedevo io. «Concimare? Perché mai, è sempre andata così bene!» E io a raccontare la storia dell’asino morto proprio quando aveva imparato a digiunare… Ma ci sono apprendisti giardinieri che invece concimano troppo. E’ un po’ più lungo da spiegare.

Il troppo sta per: 1) Troppo. Vabbè, questo è troppo facile! 2) Troppo vicino alle radici. Quando si travasa una pianta, le radici, sia nude che come pane radicale, non devono mai venire a contatto diretto col concime: tra le radici e il concime ci deve stare un adeguato strato di terra. 3) Troppo presto dopo un trapianto: una pianta trapiantata spende molta energia per adattarsi al suo nuovo habitat, e non può spenderne anche per assorbire il concime. C’è differenza poi, e molta, tra concime organico e concime chimico. Quello organico impiega tempo a essere assorbito e quindi basta non metterlo proprio a contatto delle radici, mentre quello chimico, che è sciolto nell’acqua, arriva subito alle radici e agisce immediatamente, quindi molto più pericoloso. 4) Troppo vicino al colletto della pianta, quella parte, cioè, che sta all’aria, a filo del piano di campagna, mentre la parte immediatamente sotto sta al buio e all’umido.

E quando si fa la concimazione organica? A fine stagione. Fine stagione è un modo di dire, che può significare molte cose. Per noi significa praticamente a fine autunno, quando le piante hanno perso quasi completamente le foglie. Questo è necessario perché prima di concimare dobbiamo pulire il terreno dalle foglie morte. E dove le mettiamo queste foglie morte? Se sono malate, nel bottino che il comune ci ha dato per i rifiuti verdi, se sono solo ‘vecchie’ le possiamo buttare nella compostiera, se ce l’abbiamo (io non ce l’ho perché ho un giardino troppo piccolo), sennò le spostiamo pro tempore in un’altra parte del giardino.

L’operazione richiede diversi passaggi e deve completarsi in un’unica soluzione per cui si divide il giardino in settori non molto grandi, per essere certi che ogni settore sia completato in giornata. Bisogna anche tener conto che non tutti i giorni sono utilizzabili o perché non siamo disponibili noi o perché è brutto tempo. S’inizia a metà dicembre, almeno da me, quando quasi tutte le foglie sono cadute, e difficilmente si va oltre la fine di gennaio, quando cominciano a spuntare i primi bulbi: vi ricordate? Il concime non deve venire a contatto con la pianta, né con le radici né con le foglie (né col colletto…). E siccome il tempo a disposizione non è molto, e magari piove sempre o nevica, ogni anno si deve cominciare dalla parte opposta del giardino, per essere sicuri che almeno ogni due anni tutto il giardino abbia la sua bella concimazione organica. Se riuscite a farla ogni anno, meglio ancora, in questo caso non è troppo!

Primo passaggio, dunque, pulizia del terreno. Secondo passaggio, distribuzione dello stallatico. Io uso solo quello pellettato, non quello in polvere. Perché? Teoricamente lo stallatico vero sarebbe il massimo del massimo, così mi dicono, ed è difficilissimo trovarlo. La mia unica esperienza al riguardo può non fare testo, ma ve la racconto lo stesso. In un’aiola vuota, mi venne il ghiribizzo di provare a fare un prato. Distribuii il letame, che non è l’operazione più elegante del giardinare, per non parlare della puzza costante. Il premio fu che in primavera quasi esplodevo di gioia a veder spuntare verde da tutte le parti, ma in men che non si dica mi ritrovai con una distesa d’infestanti alte 30 cm. Con gli occhi di fuori, andai a prendere un forcone per scalzare ed estirpare tutto quel verde senza senso (Piet Oudolf non era ancora di moda) e mio marito mi venne in soccorso… con un badile. Mi venne così da ridere, che ritrovai il buon umore. E misi una grande croce sul letame. Dipoi ho usato sempre quello pellettato (a base di stallatico e pollina), sia perché lo spargo con una sessola e vedo bene dove va a finire, sia perché anche controvento non mi torna sugli occhi come può fare quello in polvere. Quanto? Quel che basta per coprire leggermente il terreno. Terzo passaggio: cornunghia, a base di unghie e corni triturati. E’ di colore chiaro e si vede bene dove va a finire quando la si distribuisce sopra lo stallatico, che è marron. il quale comincia a lavorare a fine inverno, quando le temperature si alzano, mentre la cornunghia si decompone in due anni circa, quindi il terreno ha sempre risorse organiche. Terzo passaggio: dermazoto, ossia cuoio torrefatto. Ha più o meno lo stesso colore della terra, quindi ben visibile sopra la cornunghia. E’ dal maestro giardiniere Carlo Pagani che ho imparato a usarlo. E’ a lenta cessione, si può usare tutto l’anno sia di fondo che di copertura, e si può usare anche con le piante in vaso, sopra la terra.

Finito un settore del giardino, si passa a un altro. Quando arrivate a quello dove avete riposto le foglie morte, le togliete e fate le tre concimazioni. Le potete usare come un’ultima copertura dove possono restare senza recare disturbo estetico. Lo stallatico pellettato va comunque ricoperto (da cornunghia, dermazoto, foglie o altro), altrimenti non solo non si decompone, ma diventa una crosta e pure puzzolente.

Dicembre era il più bel mese dell’anno quando c’era mio marito, visto che vi cadeva anche il mio compleanno e l’anniversario di matrimonio. Facevo festa grande e compravo un bell’abete rosso (Picea abies) che mettevo in verone, con le lucette gialle (detesto le lucette multicolori, fanno più sagra che Natale). Ogni anno mio marito protestava quando alla mattina del 7 gennaio spegnevo tutto. Inutilmente ogni anno gli ripetevo che i riti sono belli perché seguono un rituale. Ma forse era solo un gioco tra noi per sottolineare quanto ci era piaciuto. Ora che sono sola addobbo un Pothos come albero di Natale, scelta che suggerisco a chi proprio non sopporta la caduta degli aghi, va bene pothos o un’altra pianta da appartamento: un abete finto mi fa l’effetto dei caminetti inglesi con le false braci elettriche. Il mio era all’aperto e dunque gli aghi non si asciugavano, ma ho saputo che l’abete normandiano (Abies nordmanniana) non ha questo difetto.

Scovazzata la scusa delle scovazze, passiamo alla scusa ecologica, che non sta in piedi. Gli alberi di Natale per le nostre case sono coltivati in vivaio per anni prima di essere venduti, non sono strappati dai boschi, perciò non c’è niente per cui piangere così come non piangiamo per le rose che compriamo dal fiorista.

Ed è assolutamente proibito ripiantare gli alberi da qualche parte, specialmente nel vostro giardino. Gli abeti stanno bene dagli 800 metri in su, sia per il loro stato di salute sia per l’habitat. In Carso, per esempio, sono completamente fuori contesto, ma un tempo non lo sapevo. Il primo anno opicinese mi recai in gennaio in Carso con un’amica e i suoi figli a trapiantare il mio alberello, con attrezzi e bottiglie d’acqua. Vi si tornava regolarmente una volta alla settimana per dargli acqua. Era divertente e ci sentivamo ‘buone e brave’. Sul più bello, quando eravamo convinte che ormai l’affare fosse fatto e che la pianta avesse attecchito, l’abete tracollò e morì. Ripetemmo la spedizione per un paio d’anni, poi pensai fosse meglio affidare l’albero a un gentile vicino che aveva posto nel suo giardino, per controllarlo più dappresso. Niente da fare. Rese l’anima anche lui. Lo portai a casa, lo tolsi dal vaso e scrollai la terra per controllarne le radici: NON C’ERANO!!! Era tagliato più o meno come i platani a candelabro o i gelsi di campagna.

Dunque, chiunque suggerisca da un pulpito qualsiasi, foss’anche da una cattedra, di andare a trapiantare l’albero di Natale, sta facendo del buonismo a buon mercato o parla senza cognizione di causa. Se poi l’albero avesse un bel pane di radici e fossimo del tipo ‘subito santi’, potremmo mettere l’albero in macchina e andare a piantarlo in montagna.

C’è chi predica bene e razzola male… Io ce l’ho in giardino un grandissimo abete rosso, che all’acquisto della casa avevo subito pensato di eliminare e che invece è ancora con me e al quale dedico molte cure… dovendo fare di necessità virtù. Mio marito aveva acquistato la casa in ottobre e poi non vi aveva più rimesso piede fino alla fine dei lavori, tanto detestava l’idea di vivere ‘in campagna’, la pensava come Thomas Bernhard: …Senza neanche accorgersene, chi vive in campagna, col passare del tempo rimbecillisce…

Entrò dunque nel suo studio e la prima cosa che gli apparve dalla porta fu l’abete la cui vista risaltava maestosamente attraverso i vetri della grande finestra, e disse che era bello e io decisi di tenerlo, visto che almeno una pianta gli piaceva. Solo molti anni dopo capii che aveva voluto essere coccolo e l’aveva detto per gentilezza. Ma ormai era troppo tardi. Il giardino era stato impostato tenendo conto delle sue esigenze idriche. Eliminandolo avrei avuto un acquitrino. Ricordo ancora un inverno siccitoso, alla fine del quale l’aiola di fronte all’abete era calata di oltre 20 cm e i bulbi dei crochi erano tutti fuori a gambe all’aria. Ogni due anni lo devo ridimensionare: gli abeti sono alberi di prima grandezza e hanno radici molto superficiali. Il mio timore è che con favore di vento (bora?) possa ribaltarsi e sfondarmi la casa. A casa mia sarà un albero di seconda grandezza, ho deciso.