GIARDINARE.IT - CAPITOLO 3
A molti gli insuccessi non fanno bene
di Mariangela Barbiero

 

Ho giardinato in terrazza per dieci anni. Come ho detto, si trattava di un lastrico solare esposto alla bora, dove andavo da maggio a settembre. La mia esperienza pertanto era decisamente relativa. Eravamo in affitto da 25 anni quando ricevemmo lo sfratto. Decisi che questo non sarebbe più dovuto succedere, così chiesi ed ottenni da mio marito di avere uno spazio mio, non importa dove. Poiché gli attici a Trieste sono pochissimi e carissimi (all’incirca quanto due casette unifamiliari), cercammo fuori città. Non feci la felicità del consorte, che si dichiarava cittadino metropolitano della polis greca, l’unica società matura che considerasse con disdoro i giardini, tant’è che mogli e schiavi erano relegati in campagna a coltivare rose e allori per onorare gli dei e gli atleti di turno.

Avevo trovato una bella proprietà a Monrupino, sul confine con la Slovenia, di 6mila mq, ma mio marito quasi svenne per lo spavento: «Lo so che a te basta un bungalow, ma non a me», così comprammo a Opicina neanche 600 mq tutto compreso: abitazione, garage e giardino. Una casetta risalente ai primissimi del Novecento, in un gradevole Jugendstil dove il giardino occupa meno di 300 mq. Opicina è un borgo carsico, a quindici minuti di macchina dal centro città, dove i triestini vanno a rinfrescarsi d’estate: «le ultime propaggini della foresta siberiana» secondo mio marito. Il trasloco fu un affare di stato. L’ascensore, che non aveva mai perso un colpo in un quarto di secolo, fu fermato per essere computerizzato. Sette piani a piedi per i mobili, otto per le piante in terrazza. Non tutte, solo quelle che più amavo. E tra queste il mio alloro, che aveva una decina d’anni ed era alto più o meno un metro e mezzo. Lo piantai con molta soddisfazione in un angolo sotto il tetto: l’esperienza di dieci anni testimoniava ’senza alcun dubbio’ che cresceva poco e lentamente. Nel giro di qualche stagione mi resi conto invece che il tetto lo avrebbe sfondato: il risultato fu un magnifico topiario, a mio parere uno dei componenti determinanti nel disegno del giardino. E imparai che giardinare in vaso e in piena terra sono due faccende molto diverse. E ancora diverso è tenere piante in casa. Qua la cosa si fa freudiana. Né in terrazza né in giardino ho mai avuto grandi insuccessi. Ho imparato un poco alla volta, sì dagli insuccessi, ma da un insuccesso alla volta. Con le piante di casa ho il 100% di insuccessi e ho imparato poco o niente. Quando gli ospiti ammirano gentilmente le mie piante e me ne chiedono il segreto, confesso che…le ricompro all’incirca ogni tre mesi, e mentre di tutte le piante del mio giardino e non solo, so nome, cognome e indirizzo, per quelle di casa, che sono meno di una decina, niente da fare. Alla fine ho capito: le tratto come prigioniere, niente nome, niente relazione intima, niente dolore da distacco, una vale l’altra! Tuttavia una me la ricordo, il Ficus benjamina! Era un ospite fisso dell’angolo del salotto e quello che mi ha rotto di più il pil (avrete anche voi spesso, immagino, rotture di pil). Si defogliava regolarmente e, poiché costava abbastanza, lo sostituivo solo una volta all’anno, in primavera, sempre sperando in migliori risultati. Mai visti. E mio marito metteva sale sulla piaga: «Tutti hanno uno scheletro nell’armadio, noi ce l’abbiamo in salotto». Poi un giorno finalmente scovai da un antiquario una bella alzata portavaso e da allora ho una normale pianta ricadente che sostituisco con modica spesa ogni tre mesi.

Ho giardinato in terrazza per dieci anni, totalmente felice e così sarebbe stato per sempre, immagino, se non mi avessero sfrattata. Quel che non si conosce non manca. Oggi non potrei fare a meno di un pezzo di terra, magari piccolo piccolo piccolo. Ma finché non ho provato l’ebbrezza di scavare, non lo sapevo. E’ un piacere immenso, che credo ci venga dalla notte dei tempi e che tutti i bambini conoscono bene. Cosa facevamo appena arrivati al mare? Paletta e secchiello. Ma anche la terrazza dà i brividi. Era divertente comprare vasi, vasetti e vasoni, studiare dove metterli, spostarli, ricollocarli. La mia terrazza non aveva pace. Spostavo vasi di cotto anche di 70 cm di diametro quando l’accostamento delle piante cominciava a disturbarmi. Come ho detto, ho iniziato dalla gavetta e mi sono occorsi più di dieci anni per cominciare a capire qualcosa, e fu così che decisi di fondare un circolo di giardinieri in modo da scambiarci le esperienze (ma di questo vi racconterò più avanti) perché a molti gli insuccessi non fanno bene e desistono. Io invece sono una tedesca col chiodo travestita da sarda (a detta del consorte). Se una cosa non mi riesce, ci riprovo fino allo sfinimento, mio o degli altri. Con le piante è la stessa cosa. Provo e riprovo, finché non riesco a sistemarle con mia e loro soddisfazione. Devono venir su bene ma nel posto dove decido io. Se la cosa non è possibile, le regalo. Un’amica dice che quando scendo i sei gradini che dal verone portano al giardino le piante rabbrividiscono dicendosi “a chi toccherà oggi?”. Il giardino è una grande scuola, possiamo paragonarla all’università, la terrazza invece è un po’ come le medie superiori.

Dopo la struttura del giardino, che è in assoluto la prima cosa di cui occuparsi, il primo problema del giardiniere è la terra. E’ difficile trovare buona terra. In terrazza mi dovevo accontentare del famoso terriccio universale, famigerato secondo il mio amico, Renato Ronco, che ha un bel blog https://rennybus.blogspot.it/ e che ha scritto un libro «Il giardino delle regole infrante» contromanuale del libero giardiniere. Da leggere.

In giardino è proprio cominciata male. Mio marito sapeva che stavo cercando buona terra e ne ha parlato con un amico, cosa che non avrei mai sospettato potesse/sapesse fare. Da un lato questo ancora mi commuove, anzi mi commuove di più oggi, che so quanto gli dispiacesse vivere in campagna. Lui adorava vivere in città, a due passi da un caffè, una libreria, un teatro. Insomma stavo guardando sorpresa i cinque metri cubi di pura argilla scodellati da un autocarro che tappavano l’uscita da casa mia quando sentii Slaviza, il contadino serbo, che è stato in assoluto il mio primo maestro, che gridava in un improbabile italiano «a mia casa co’ ‘sta roba se fa madoni», cioè mattoni. Era venuto in Italia a lavorare come muratore, ma aveva una vera passione per le piante. Mi ha insegnato ad aggiustare/ingessare i rami rotti , e ho imparato la doppia vangatura, cioè scavare per la profondità di due vanghe, o come otturare la ferita di un grosso ramo potato. Oggi queste tecniche non sono per lo più valide. Ricordo che il primo a consigliarmi di abbandonare la doppia vangatura fu Giancarlo Frisone Cappello, un agronomo di Firenze, che aveva un’associazione, “Il Giardino amatoriale”, e che girava l’Italia facendo lezioni di giardinaggio. Ne tenne anche al nostro Civico Orto Botanico. E fu soltanto un paio d’anni dopo che lessi su The Garden, l’organo della Royal Orticultural Society, che era una pratica da abbandonare in giardino e valida solo per l’orto, che si rifà ogni anno e dove è bene girare e ribaltare la terra, per renderla non solo più leggera ma anche per eliminare le infestanti e gl’insetti. E’ una fortuna che questo non si debba fare in giardino, perché vangare nelle aiole piene di piante e bulbi è un lavoro che richiede l’agilità di una danzatrice sulle punte.

Perché no alla doppia vangatura? E come ho rimediato ai cinque metri cubi di pura argilla? Alla prossima!