GIARDINARE.IT - CAPITOLO 1
La scoperta dell'acqua calda
di Mariangela Barbiero

 

Uno nasce giardiniere o lo diventa? Vedremo. Per molti anni ignorai completamente il Regno Vegetale, così lo chiamava il mio sussidiario. Vissi con allegria e completezza fino a nel bel mezzo del cammin di nostra vita, senza mai avvertire sensi di vuoto o manchevolezze di sorta.

Abitavo nel centro di Trieste, al settimo e ultimo piano della via cittadina, che un tempo (prima dell’avvento dei cassonetti e delle macchine) era considerata tra le più belle d'Italia, il Viale XX Settembre, una piccola Rambla. La mia cucina aveva una splendida vista sulla collina di Scorcola, che di sera si accendeva di minuscole luci, mentre di giorno l'unica cosa animata era un tram bianco e azzurro che andava diligentemente su e giù, proprio come in un presepe, un presepe del XX secolo.
Alla mattina il consorte andava in ospedale e io in fabbrica, e lasciavamo la porta finestra della cucina spalancata, in modo che la casa sapesse sempre di fresco e di aria libera. Dopo anni di perfetta beatitudine, cominciò il piccolo incubo che si trasformò poi nel più bel sogno della mia vita. Al nostro ritorno, sempre più spesso trovavamo sul pavimento della cucina sgraditi ricordini di colombi. Quando si parla di sgraditi ricordini, non si menzionano mai le tortorelle (nel manuale di bon ton che tengo sempre in borsetta, non è previsto che animaletti così deliziosi abbiano un apparato intestinale).

“À la guerre comme à la guerre!” mi dissi e concepii un piano di contrattacco massiccio, ispirata da qualche antenato israelita (Adamo ed Eva, mi pare che si chiamassero i miei bis-bis o tris-tris avoli): un bel cagnone acchiappapasseri, tanto per cominciare…
Mio marito, maggiore di me in anni e sagacia, nonché gattofilo di razza, mi convinse che, per tener lontani i colombi dal pavimento della mia cucina, e considerate le dimensioni del nostro appartamento, un gatto era la risposta giusta. Non avevo mai avuto gatti ma ricordavo male parole sul loro conto (ruffiani, traditori, menefreghisti), mentre sul miglior amico dell'uomo solo lodi!
Ma accettai su due piedi la proposta, prima che 'qualcuno' ci ripensasse. E venne Sophie, un persiano azzurro di color grigio (boh!). Non appena la vidi, capii che avevo sprecato i miei primi 34 anni. Decisi che mi sarei rifatta di tutto il tempo perduto e che ogni minuto libero dal lavoro l'avrei trascorso con lei.

L'appartamento aveva in dotazione esclusiva un lastrico solare, di cui non mi ero mai occupata e che serviva solo a farci bollire d'estate e congelare d'inverno. Decisi d'emblée che ne avrei fatto un giardino pensile, che mi sarei organizzata per trascorrervi ore piacevoli con la mia Sophie, magari prendendo il sole, ecc. ecc. Mi facevo rosei quadretti di me che scrivevo, col gatto sulle ginocchia, immersa nel verde. Oppure in bikini su una chaise longue, col gatto in una odorosa ombra a ronfare. Mai 'anticipazione' fu più fallace, mai impresa fu più coronata dal successo!

L’'inizio fu tra i meno promettenti. Sophie venne in inverno e solo nel giugno successivo cominciai le grandi manovre per la trasformazione del bollente cemento in una terrazza romana, così fu definita dipoi dagli amici – uno arrivò addirittura a definirla ‘sciacchitana’, perché solo nella sua nativa Sciacca poteva trovare un paragone acconcio. Ho amici carissimi, ça va sans dire!

La prima idea da giardiniera che mi venne fu la più rivoltante che si possa immaginare: acquistai quattro tujette 'cimiteriali' in quattro enormi vasi di cemento bianco, cosparsi di pezzetti di vetro di varie sfumature di verde, da mettere ai quattro angoli della terrazza. Per dieci anni, tanti ne trascorsi ancora in Viale XX Settembre, mai mi fu concesso di camminare a piedi nudi nel mio eden, sia perché restava bollente fino a notte, sia perché ti beccavi inesorabilmente qualche scheggia di vetro. L’unica nota a mio favore era che esteticamente erano molto piacevoli, ma tutti gli altri fattori erano negativi: pesantissimi e taglienti – schiantavano la schiena, le braccia, le mani, le ginocchia e ogni parte esposta e no del mio corpo ogni volta che decidevo di spostarli – pur tuttavia il loro peso non fu sufficiente a impedire che una brezza, ancorché sostenuta – non la bora, si badi bene – li facesse capovolgere.
“Sono sue quelle tuje che si rotolano in terrazza?” mi dice una voce sconosciuta al telefono. Apparteneva a un gentile signore che dalla finestra di casa sua aveva visto la scena e fatto diligente ricerca per trovarmi. Erano mie. Ed ero costernata. Vabbé che erano orrende, ciò nonostante ritenni che il vivaista che mi aveva venduto vasi e tuje fosse stato professionalmente incapace e dunque me ne dolsi, perché cominciai a intuire che mi ero addentrata impreparata in un mondo pieno di trappole o di pressappochismo.

La parte piacevole fu che mi sbarazzai per sempre delle tujette, e che appresi il significato dell’espressione ‘fare vela’, molto importante quando si giardina in terrazza: la parte aerea della pianta offre superficie al vento e dunque bisogna tenerne conto e ancorare i vasi o le piante. Comunque, fatto tutto quello che si deve fare, quando i vasi non siano ‘in solido’ col pavimento, imparai che la bora è uno dei fattori chiave da tenere in considerazione quando si giardina a Trieste, sia in terrazza che a terra. E direi, dopo quaranta anni ‘sul campo’, che la scoperta dell’acqua calda per un giardiniere è che prima di cominciare a comprare piante, bisogna informarsi sulle loro esigenze, sui loro likes & dislikes.