RESTAURO DEI GIARDINI Teorie e storia

di Maria Adriana Giusti


a cura di Biagio Guccione (Il Giardino Fiorito, gennaio-febbraio 2005)


Maria Adriana Giusti
Professore di Restauro Architettonico presso la Facoltà d'Architettura II del Politecnico di Torino e la Facoltà di Ingegneria di Pisa, insegna nei Corsi di laurea specialistica in Architettura, Edile-Architettura, Conservazione dei Beni architettonici e Giardini, Parchi, Paesaggio. E' membro del Comitato Nazionale per lo Studio e la Conservazione dei Parchi e Giardini storici (Ministero per i Beni e Attività Culturali), presidente dell'Opera delle Mura di Lucca. Già funzionario della Soprintendenza per i Beni A.A.A. di Pisa, ha progettato e diretto numerosi restauri di monumenti e collaborato con istituzioni internazionali. Fa parte del Progetto Albania dell'Università di Firenze, nell'ambito del quale ha curato la mostra Architettura e architetti italiani in Albania nel Novecento (Tirana, maggio 2004) e il restauro del Centro storico di Scutari.
Ha recentemente partecipato come esperto in restauro dei giardini storici al concorso internazionale per la Villa Reale di Monza (progetto 3° classificato). Tra i saggi e le monografie sull'architettura e il restauro: I tempi della natura. Restauro e restauri dei giardini storici (Firenze 1999), Restauro a Lucca. (Lucca 2000), Atlante delle grotte e dei ninfei in Italia, 2 voll. (con V.Cazzato, M.Fagiolo, Milano 2001, 2003), Restauro dei giardini. Teorie e storia (Firenze 2004).

Questa rubrica ha lo scopo di illustrare i libri che riteniamo di grande interesse nel panorama
culturale italiano, in particolare nel campo del giardinaggio e della paesaggistica.
Per superare la formula della recensione classica abbiamo voluto affidare
agli autori stessi la presentazione del proprio libro.
Formula imbarazzante? Forse. Certamente stimolante.

 

Restauro dei giardini. Teorie e storia, traccia per la prima volta il profilo storico del restauro dei giardini in ambito europeo, volendo ricostruire i modi in cui il tema della conservazione si pone in termini critici, a partire dal processo di storicizzazione del giardino e riconoscimento dei "valori" da salvaguardare. Ciò ha indotto a ripensare i confini stessi dell'ambito d'indagine e rimettere in gioco tematiche ancora poco esplorate, consentendo di delineare una prima storia del restauro dei giardini che affronti la dialettica tra questioni teoretiche e pragmatiche.
In questo senso, il volume non pretende di esaurire la complessa estensione dei fenomeni indagati, quanto piuttosto di riconoscere i valori specifici e dare valenza organizzativa alle relazioni critiche di un processo storico, aprendo numerose ipotesi di lavoro futuro.

Attraverso lo studio delle fonti, la costruzione di una storiografia specialistica, l'analisi dell'operato di alcuni paesaggisti che si sono confrontati coi temi del ripristino, della ricostruzione creativa, dello storicismo e dell'eclettismo stilistico, il volume mette a fuoco i nodi problematici dai quali scaturiscono riflessioni teoriche ed esperienze operative, fino agli attuali indirizzi storico-critici che costituiscono le basi fondative per ogni singolo approccio progettuale.

Le stesse fonti dimostrano come la conservazione si radichi nell'atto stesso del costruire un giardino, legandosi fortemente alla prassi, alla manutenzione quotidiana (soprattutto della vegetazione e dell'idraulica), mentre sono relegate ad altri ambiti le specifiche questioni architettoniche. Bisogna tuttavia arrivare al XVIII secolo, perché la letteratura specialistica tratti con chiarezza i problemi del restauro. Una prima formulazione, dai risvolti teoretici, è riconducibile al trattato del Dézallier D'Argenville, quando si propongono le operazioni da effettuare per restaurare una preesistenza, lasciando intendere, non solo l'idea di giardino come organismo complesso e unitario, ma anche il giudizio di valore rispetto alle componenti del giardino stesso. Su questi principi s'impostano le basi storiche del restauro dei giardini in un momento parricolarmente significativo della loro evoluzione: la conclusione del ciclo di formazione dei grandi parchi barocchi che racchiude in sé il germe stesso della loro deformazione. L'idea della conservazione del giardino come "arte" - che nel D'Argenville, appare tanto più preziosa perché fragile e al tempo stesso risultato di un divenire lento - è assimilabile allo sviluppo di una "sua" storia, che si avvia a concatenare e saldare tra loro culture, luoghi, testimonianze.

Un primo dato rilevante è che le radici della storiografia del giardino siano insite nel processo di trasformazione del giardino stesso, espressione di un più profondo mutamento della società tra XVIII e XIX secolo. Dall' illuminismo alla cultura del positivismo, la storia del giardino si configura come disciplina autonoma. Da qui, i primi inventarii ricostruiti sulla base delle memorie documentali di vario genere (mitiche, letterarie, archeografiche), sono riletti in sequenza di tempo e di spazio. Da qui, l'idea stessa di giardino "monumento", sul quale trasportare le categorie critiche dell'architettura. In tal senso, mutuando da Quatremère la definizione di monumento, il giardino, nel suo divenire storico, è assimilabile a un "costrutto per eternare la memoria di avvenimenti straordinari...", al quale vanno progressivamente a riconoscersi i "valori" sui quali si fondano le strategie della "tutela" dell'ultimo secolo. Il momento storico di trasformazione del giardino e il processo di acquisizione della cultura del "monumento" siano dunque sincronici, confermando l'unitarietà del restauro dei giardini col restauro dei monumenti.

A dimostrazione di ciò, sono state riconsiderate le trasformazioni sette-ottocentesche rispetto alla preesistenza, cercando di individuare i criteri selettivi che sono stati alla base delle scelte. Ciò ha consentito di evidenziare come nel diffuso panorama degli adattamenti all'istanza paesaggistica si possa cogliere una consapevole propensione a mantenere le testimonianze architettoniche dei giardini rinascimentali e barocchi, che sono lette e riconosciute come esternazioni dell'edificato o, per usare le parole di Viollet-Le-Duc, "annexe obbligé" di residenze nobiliari.

Il giardino è suscettibile di rinnovamenti continui, e quindi di distruzioni e rimaneggiamenti, come ogni categoria del costruito artificiale, cui il giardino stesso appartiene. In nome del ripristino si operano distruzioni, manipolazioni, decontestualizzazioni di frammenti e ornati per nuovi siti e creazioni di opere "altre". Le stesse contaminazioni stilistiche ed "eclettiche" sette-ottocentesche dimostrano il profondo grado d'interazione tra i diversi territori dell'architettura.

Il percorso storico degli interventi acquista particolare significato perché avverte sul livello di conoscenza e di percezione dei giardini, filtrati attraverso le interpretazioni creative del primo novecento, sulle quali agisce sia il tempo dell'evoluzione sia quello della percezione.
La temporalità è infatti legata al momento percettivo che agisce sulla stessa dinamica del processo di trasformazione dell'opera stessa, come dimostrano i restauri novecenteschi dai quali emergono i limiti di un'impostazione idealistica, volta a salvaguardare la presunta "autenticità" dell'immagine, dando per scontata la sostituzione inevitabile della componente vivente e deperibile. Le tendenze, sia purista sia creativa, prevalenti nel restauro del giardino del novecento, si fondano sulla egemonia della forma e del significato rispetto alla materia. Da qui derivano manomissioni e alterazioni in nome della ricerca del presunto stato originario. Di contro, il riscatto del valore della sostanza materica tributario della cultura austro-tedesca d'inizio novecento (da Alois Riegl, a Max Dvorak, Georg Dehio) si è confrontato coi territori polimaterici del giardino, a partire dall'ultimo ventennio del novecento. Inevitabile che tali acquisizioni rimettessero in discussione il principio dell'autenticità.
La stessa ciclicità naturale, anche alla luce dei fondamenti della teoresi brandiana sul restauro della materia, vanificherebbe l'idea stessa di conservazione. Qual è la natura autentica di un giardino se la sua fenomenologia è il risultato di palinsesti, sostituzioni, riletture creative del passato? Interrogativi come questi hanno animato il dibattito dell'ultimo ventennio, sempre più attestando il giardino ai valori della complessità. Il bilancio degli interventi di questi ultimi anni (sempre più maturi sul piano della conoscenza, tuttavia ancora problematici sul fronte operativo), alla luce dei più recenti contributi del dibattito disciplinare e degli indirizzi culturali della Carta di Firenze (1981), induce a riconsiderare alcuni aspetti capaci di riscattare la conservazione dai facili schematismi e formulazioni.

Si può infatti osservare come prevalga ancora la tendenza a categorizzare e tipizzare, a ricercare costanti linguistiche e tipologiche (per esempio: geometrico e paesistico), a scapito dell'infinita varietà dei fenomeni che caratterizzano ogni giardino. Il giardino è, una volta per tutte, il risultato di un processo che interagisce con una pluralità di valori, a partire da quelli del paesaggio urbano o extraurbano di cui esso fa parte. Conservare un giardino significa tener conto di questa dinamica e di questo sistema d'interazioni. Dunque preservare o, se necessario, riscattare quell'equilibrio che il tempo della nostra memoria stabilisce, misurando il tempo degli uomini col tempo della natura.

Inoltre: acquisire il massimo della conoscenza del sistema e delle sue singole parti, pensando il giardino come insieme di valori, mentre si stabilisce quella continuità tra progetto di restauro e progetto del nuovo, insita nella natura stessa di work in progress del giardino. Tali acquisizioni maturano nel rispetto "sacrale" verso i tempi lunghi della natura, nella consapevolezza che la crescita di un albero è più lenta della costruzione di un edificio e, tuttavia, la vita vegetale può essere più breve di quella minerale. Di contro, occorre però sfatare un luogo comune sui tempi diversi delle componenti materiche del giardino, sul concetto di durata. Perché la vegetazione può addirittura sopravvivere al costruito, può dominarlo, rimodellarlo, distruggerlo. Alberi pluricentenari, alberi che si riproducono anche quando il giardino è distrutto insieme alla casa, dimostrano come il principio della durata sia un parametro labile e controverso. Dunque, una volta per tutte, conservazione come teoria aperta, che non si esaurisce nell'opera in sé, e neppure nell'intervento, ma affronta il monumento-giardino come "segno proposizionale", il quale implica il massimo approfondimento delle conoscenze e la capacità di rendere continuativo il dialogo attraverso l'uso.

 

Giardino Collodi