EMILY, NEL GIARDINO DELLA MENTE
di Delfina Rattazzi (Gardenia, settembre 2007)


Emily Dickinson
Coltivava gigli, iris e rose, orchidee in serra, ma amava soprattutto le violette. Quando morì, per tutti era soltanto una giardiniera.

Quando Emily Dickinson muore, a 55 anni, nel maggio del 1886, ha pubblicato solo sei delle sue 1.775 poesie, e anche quelle, per la maggior parte, anonime. Ad Amherst, nel New England, dove è nata e ha trascorso la maggior parte della sua vita, è conosciuta come esperta giardiniera. La chiamano il Mito per la sua scelta di vivere, negli ultimi anni della sua esistenza, reclusa dal mondo e vestita di bianco. Durante la cerimonia funebre la sorella minore, Lavinia, a lei devota, le mette in mano dei fiori di eliotropo. Attorno alla gola posa violette e orchidee spontanee. Emily aveva chiesto che la bara fosse portata a braccio nei campi dove fiorivano i ranuncoli gialli, fino al West Cemetery, visibile dalle finestre della casa di famiglia.
Per la poetessa americana, autrice di versi come «Natura è melodia» ed «Essere un fiore, è profonda responsabilità», la fama arriverà postuma. I suoi componimenti furono trovati dopo la sua morte, raccolti in quaderni legati con un filo di lana rosso, senza titolo. Esiste una sola fotografia di Emily Dickinson. Non si sposò mai, anche se fu chiesta in moglie. Oltre alle poesie, di rara forza e originalità, Emily scrive molte lettere a cui spesso allega fiori essiccati. Ai rari visitatori che accetta di vedere fa volentieri dono di uno stelo fiorito.
Un libro uscito da poco negli Stati Uniti, The Gardens of Emily Dickinson, di Judith Farr, racconta il rapporto della poetessa con il mondo naturale. La Dickinson, in vita, cura il giardino di casa con le sue rose, i gigli, gli Hemerocallis, i garofanini, i narcisi, le fritillarie, i malvoni, gli anemoni, i piselli odorosi, le dalie, gli Aster, le digitali, le salvie e i melograni.
Cagionevole di salute e sofferente di una grave malattia agli occhi, ottiene dal padre avvocato e deputato di far costruire una piccola serra dove dedicarsi estate e inverno alla coltivazione delle piante. Dietro alle finestre vetrate Emily cura piante tropicali allora rare come gelsomini, gardenie, camelie e orchidee.
La Dickinson ha una predilezione particolare, però, per le piante selvatiche. Le violette, le genziane, le margherite e l'umile trifoglio compaiono spesso, assieme alle api, nelle sue poesie. Nelle sue lunghe passeggiate solitarie sulle colline di Amherst raccoglie fiori e foglie che dispone ordinatamente in un erbario. Conosce bene la botanica e il linguaggio dei fiori.

Quando scrive, considera le piante alla stregua di esseri umani. Per lei le rose di macchia "arrossiscono" nella palude, i boschi sono pieni di pianoforti, la genziana "ammalia", i ranuncoli flirtano con lei e l'ape «sfoggia sillabe di seta e scarpa snella».
Sono pochi i poeti che dipingono con tanta esattezza la fioritura dei lillà, lo schiudersi di un dente di leone, le sciarpe rosse dei pettirossi, lo scivolare di una serpe nell'erba, il cucire dei ragni. I prati e i boschi che la circondavano sono stati forse la maggior fonte di gioia per la Dickinson che, parca come un uccellino, di briciole ha vissuto.

Nell'isolamento della sua stanza spartana, con la sua calligrafia spigolosa, scrive una poesia che sembra un testamento, la 441: «Questa è la mia lettera al mondo/che non ha mai scritto a me».

 


La casa e il giardino di Emily Dickinson.


Come cento anni fa,

vi si coltivano i fiori

che la poetessa

amava, fra cui gigli,

malvoni, rose, salvie

ed Hemerocallis.