LE MANI SULLA CITTA'

Considerazioni estetiche ed etiche sui recenti interventi urbanistici

di Walter Chiereghin (Konrad n. 138, luglio-agosto 2008, editoriale)

 


Episodi come la spianatura del parco dell'ex ospedale Maddalena o la ristrutturazione in Piazza Libertà, con relativo abbattimento di piante secolari, trovano una loro naturale, anche se inascoltata, eco su queste pagine. Enumerare però i singoli episodi del saccheggio, perpetrato con ignorante protervia a danno della città da speculatori e amministratori uniti nell'infelice impresa, non basta a dare l'immagine complessiva di quanto regredisca mese dopo mese il paesaggio urbano di Trieste.

La sua immagine è insidiata da interessi non sempre confessabili, da ignave complicità e da egoismi di casta. Gettare uno sguardo d'insieme sui fatti degli ultimi anni è sconfortante, per quanto riguarda il ruolo delle amministrazioni comunali, sia l'attuale che, in misura leggermente minore, la precedente.
Una veduta d'assieme serve per rendersi conto che lo stillicidio di interventi dissennati sta (s)formando una nuova Trieste: la città perde quotidianamente pezzi della sua identità, il più delle volte a vantaggio di pochi o pochissimi privilegiati, spesso unici fruitori di beni pubblici che dovrebbero, per definizione, essere a disposizione di tutti.

Se io dovessi fornire un'immagine di quello che, concretamente, considero la mia patria, tale immagine sarebbe quella della linea che separa il mare dalla terra, che segna il discrimine tra natura e cultura, tra paesaggio naturale e architettonico, che sulle rive qualifica così significativamente le caratteristiche morfologiche, storiche e antropologiche di questa città.

Uno spazio esiguo che apriva alla vista amplissime prospettive, cui sono legati i più remoti ricordi. Miei, ma certo anche di quasi ogni altro triestino. Provate a passeggiarvi ora. Camminerete nello spazio compreso tra una specie di autostrada urbana e il mare, in alcuni tratti ingabbiato oltre la rete che difende circoli nautici privati, come quello retrostante la pescheria e due dei tre lati (il terzo è in dirittura d'arrivo) del molo adiacente il cosiddetto "Salone degli incanti".
Vi farete un'idea abbastanza precisa di quale sia il sostrato ideologico che anima coloro che hanno cura dell'aspetto della città. Più avanti, all'imbarcadero prospiciente piazza Unità, il brutto gruppo bronzeo dedicato al bersagliere uscente dalle acque come un lagunare, collocato proprio sull'ombelico della città, è un'altra dolorosa conferma dell'insipienza di chi amministra e dovrebbe tutelare i beni architettonici, storici, artistici, ambientali e culturali di questa città.

Non vorrei dare a queste considerazioni il senso di un aprioristico antagonismo rispetto al nuovo. Quando però tale nuovo assume le forme di una disordinata ed episodica rincorsa al "fare pur che sia", ad approfittare di ogni occasione per reinventare spazi urbani al di fuori di ogni logica linea di sviluppo nella continuità e nel rispetto di quanto ci ha preceduto, è allora il caso di opporsi e di dichiarare il disgusto per quanto viene sciaguratamente producendosi. Qualche mese fa, assieme al direttore di questa rivista, attendevamo di essere ricevuti dalla presidente della Provincia per un'intervista. Dalle finestre della sala d'attesa di palazzo Galatti ho fatto osservare a Luciano come la gente che passava a piedi preferisse assieparsi sul marciapiede del palazzo delle Poste anziché transitare per la piazza di recente ristrutturata. Questa appariva del tutto - e giustamente - deserta. La scelta spontanea e probabilmente inconscia dei numerosi passanti appare rivelatrice e sfata le argomentazioni di chi intendesse difendere anche i più vandalici interventi urbanistici accampando questioni di gusto personale.

La distruzione di Piazza Vittorio Veneto per consentire la creazione di un autorimessa sotterranea (privata, si capisce) è un altro episodio del saccheggio della città cui stiamo assistendo. Anche qui alberi divelti, anche qui architetture anodine e posticce, anche qui lo snaturamento di uno spazio preesistente omogeneo e coeso, anche qui l'esproprio di un bene comune in favore dell'utilità di pochi.
Parlare della rinnovata Piazza Goldoni significa compiere qualcosa di assai analogo allo sparare sulla croce rossa. A cominciare dal monumento al CD che si erge nel mezzo, la piazza tagliata in due da quel nostrano muro della vergogna, con le sue intermittenti cascatelle, con l'alettante visione di eleganti cassoncini di una improbabile raccolta differenziata esposti in bella fila sul lato probabilmente più visibile della piazza, con i pili lignei sui quali nessuna bandiera avrebbe piacere di esporsi allo sguardo, con le dozzine di semafori che interromperebbero ogni velleità di passeggio ove mai a qualcuno venisse in mente di compierlo in quello spazio ormai del tutto sequestrato alla logica, la piazza ormai è divenuta tutt'intera un monumento allo sforzo di deturpamento che sembra il tratto distintivo del nostro presente.

Né lo scempio, in particolare quello di razionalità, si arresta negli spazi meno baricentrici e più riposti del centro città. Le laterali della Via del Lazzaretto Vecchio cantate da Saba, per dirne una, costituiscono un modello probabilmente unico in Europa in cui, allargando a dismisura i marciapiedi, si è ridotta la carreggiata ad uno stretto passaggio per impedire il parcheggio delle automobili (e per consentire a un buffet di allestire i tavoli all'aperto, altro illuminante esempio di trionfo dell'interesse privato su quello pubblico).

Anche negli sporadici casi dove la mutazione urbanistica sembra essere partorita da un pensiero meno demenziale o addirittura, com'è nel caso di alcune isole pedonali, da un disegno razionale e rispettoso dell'ambiente e del benessere dei cittadini, si è provveduto a intorbidare il poco ben fatto con vezzeggiamenti con pretesa di monumentalità e del tutto strampalati. Vedasi la fontana all'inizio di Viale XX settembre, vedasi i bronzei richiami ai nostri maggiori scrittori piantati qui e là a grandezza un po' meno che naturale.
Fortunatamente le attenzioni dei rimodellatori dei nostri spazi urbani
si limitano quasi esclusivamente a un paio d'ettari attorno alla Piazza Unità, a riprova di una loro visione della città di sapore strapaesano, come è testimoniato dal fatto che, quasi fossimo un paesone di ottomila abitanti, i principali uffici cittadini (Comune, Regione e Palazzo del Governo) si affacciano tutti su una medesima piazza. Fortunatamente, la cattedrale è fuori portata.

Al di là di quel disgraziato perimetro centrale, nella zona semiperiferica e nelle periferie propriamente dette non si spinge lo sguardo rapace e iconoclasta degli amministratori. Qui, al più, sotto gli occhi di pochi residenti, si estingue quotidianamente il poco verde superstite a vantaggio del cemento, in una silente irrisione delle ragioni del benessere collettivo.
Poco o nulla si è fatto negli ultimi anni, con qualche isolata sporadica eccezione anche positiva, come ad esempio è stato il riassetto di Piazza Puecher. Per il resto, solo parcheggi sotterranei voluti dall'iniziativa privata, costati anni di lavoro e di disagi per tutti a vantaggio di alcuni. Magari, com'è stato per Piazza San Giacomo, accompagnando l'inaugurazione degli spazi restituiti alla fruizione collettiva da qualche estemporaneo divieto in più, come quello di condurvi i cani.

Più oltre, nelle periferie, il perdurare dell'assenza di piazze che costituiscono un luogo di aggregazione sociale, quartieri di decine di migliala di abitanti privi di qualsiasi spazio condiviso, giganteschi dormitori deprivati ormai anche della presenza di botteghe, per lasciare posto alla grande distribuzione che avanza con la sua razionalizzazione di costi e di spazi, ma anche con la sua spersonalizzazione dei rapporti umani.

Sarebbe, tra l'altro, da chiedere conto del perché, in una città in costante regresso demografico da mezzo secolo e passa, si continui a costruire casermoni periferici lasciando vuoti per decenni edifici in posizione più centrale, com'è stato il vergognoso caso di Cittavecchia. È così che ogni nuova mossa dell'amministrazione comunale ingenera sospetti e aprioristiche contrarietà, com'è nel caso del nuovo ponte che si vuole costruire sul canale. Altro esempio di soldi non solo buttati, ma investiti al contrario per peggiorare l'estetica di uno dei luoghi più caratteristici della città, com'è evidente a chi posi lo sguardo sulla prospettiva che dal mare conduce alla facciata neoclassica di Sant'Antonio. Qui l'unico intervento possibile dovrebbe semmai suggerire, com'era stato per un bel progetto dell'architetto Gigetta Tamaro negli anni Novanta, di prolungare fino al sagrato della chiesa lo specchio d'acqua che oggi si vuole invece frammentare ulteriormente con il ripristino di un ponte a suo tempo, assai opportunamente, cancellato dalla topografia del luogo.

In un panorama così inquietante, l'indifferenza e la passività di larga parte dei cittadini rispetto alla pluralità di scempi che si vengono consumando a danno di quel bene condiviso che è la valenza estetica della città assume risvolti che sfumano dall'estetica nell'etica. Un silenzio-assenso che, segnatamente da parte del ceto intellettuale della città, sembra giustificare la prosecuzione su questa nefasta strada lastricata di cattivo gusto, di disprezzo per i valori della cultura, di pressappochismo nelle scelte urbanistiche, quando non di connivenza con la più miope e rapace speculazione edilizia.

Ci piacerebbe che qualche esperto della materia, qualche illustre accademico, qualche artista, qualche critico, qualche storico dell'arte prendesse una risoluta posizione in difesa dei valori anche estetici che la città racchiude in sé, anche a costo di risultare sgradito ai manovratori. In fin dei conti, sarebbe proprio questo il ruolo che la società assegna loro.