UN ANGOLO MERAVIGLIOSO DI GORIZIA
Il giardino botanico di Luciano Viatori

di Tassilo Del Franco (
ARTE E CULTURA, aprile 2004)


Magnolie, azalee e piante ornamentali tra la Gròina e l'Isonzo

Fin dal secolo diciottesimo, Gorizia ha presentato l'immagine della cittadina immersa nel verde. Ciò spinse, come si sa, nell'Ottocento i primi romantici promotori del turismo - il Freiherr von Czoernig, in particolare - a definirla "Nizza austriaca", anche se, per la verità, assai poco l'accomunava, anche in quell'epoca, alla città di Garibaldi: niente lungomare con le palme, a Gorizia, niente porticciolo in stile ligure, niente villeggianti inglesi, d'inverno.
Il clima, le varietà vegetali, specie quelle arboree, ma anche gli alberghi (il Posta da noi, il Negresco a Nizza!) qui erano molto diversi. Ciononostante, nutrite schiere di borghesi e nobili di tutto il Centro-Europa avevano, col tempo, eletto Gorizia a salubre luogo di soggiorno. Si erano insediati in città e l'avevano anche abbellita di ville e di giardini.

I quadri del Tominz illustrano spesso la vegetazione di cui il capoluogo isontino andò sempre fiero. I personaggi ritratti hanno sovente, sullo sfondo, ricchi boschetti e prati fioriti. S'intravedono scorci arborei e colline verdi da Gradisciuta, da Lucinico verso la città, dal bosco di Panoviz ad Aisovizza, ricchi di selvaggina, con robinie, gelsi, roveri.
Castagni, frassini, carpini bianchi erano dappertutto, e offrivano riparo agli uccelli. In città, invece, da tempo s'erano piantati pini e cedri del Libano, platani, ippocastani, tigli, olmi, magnolie, e perfino una sequoia gigante.
A Gorizia si veniva un tempo in villeggiatura, a soggiornare in mezzo al suo verde, del quale ancora rimangono, dopo la Grande Guerra e la trasformazione dell'area urbana negli anni sessanta, resti importanti.

Nell'Ottocento chi poteva permetterselo si prendeva il tempo per ricreare lo spirito con ciò che oggi si considera, talvolta, solo banalità: la bellezza di una fioritura, il colore di un'alba o di un tramonto fra le colline, il profumo delle rose. Si andava a passeggio con le famiglie e si sostava alle panchine, ad ammirare alberi e fiori. Ci si portava dietro, col cestino della merenda, anche Goethe o il Romancero. A Gorizia, ad un parco seguiva un giardino, e questo confinava con un boschetto. Lauri e siepi di bosso e biancospini li contornavano, creando mondi protetti di pace e di poesia.

Biagio Marin ha definito Gorizia la città delle magnolie: di esse si godeva, nella bella stagione, per le esplosioni di colori delle sue varietà, e borghi e sobborghi erano ricchi anche di prugni, d'albicocchi, di ciliegi. In secoli di lavoro, giardinieri e semplici amanti del verde hanno messo a dimora, potato, irrigato e curato, centinaia di specie vegetali, a Gorizia. Di quelle restano oggi, solo nei viali e nelle strade, quasi cinquemila piante arboree classificate che, insieme con innumerevoli altre, decorano la città. È ciò che residua di un immenso patrimonio, costruito con passione e dedizione. Grandi goriziani del passato se ne fecero vanto, e ne furono artefici. Tutti, allora, ammiravano quegli uomini e quelle donne, in città.

È sabato santo. Il tempo è incerto, dopo le piogge degli ultimi giorni, uno sprazzo di sole inganna, perché le previsioni del tempo non fanno ben sperare. Alla mia telefonata non rispondono, ma l'uomo che cerco dovrebbe essere in casa. È il professor Luciano Viatori, che mi richiama subito.
È un po' sospettoso, all'inizio, mi pare. Gli propongo, dopo le scuse di rito, di mostrarmi, a sua discrezione e in qualunque momento ritenga opportuno, la sua collezione. La chiamo così, poiché di questo si tratta: un trionfo di magnolie, d'azalee e rododendri quasi senza pari. Lui non mi conosce, mi chiede chi sono e cosa faccio e poi, dopo l'esame, passa subito al goriziano, mettendomi a mio agio. Sono sollevato, neanche io conosco il professore, ma so che è il detentore e il custode di un raro tesoro vivente, di cui può essere geloso, come io sarei, al posto suo. Le mie speranze, per questo, sono poche. Mi assicura che lui ormai non apre più a nessuno, però la mia passione per la nostra città e le sue bellezze nascoste deve averlo incuriosito: "La vegni alle tre e mezza, che dopo piove". Il posto lo conosco, ci sono passato davanti tante volte a piedi o a cavallo. Mi porterò dietro moglie e bambini.

Alle tre e mezzo fermo la macchina di fronte all'entrata: so che botanici da ogni dove sono venuti qui, ad ammirare le numerose varietà di piante da fiore presenti nella proprietà, ai più sconosciuta.
Il professore ci aspetta di là da un cancello automatico, a distanza, e vedo un cartello: "II giardino non è visitabile". Mi reputo, per questo, un privilegiato. Manca solo il consueto "Cave canem". Il professore porta un cappello ad ampie falde sulla testa, e con quello mi ricorda Churchill, venuto a dipingere a Venezia: stesso piglio d'artista; la sua variopinta tavolozza dei colori, invece, evidentemente è sparpagliata nel giardino. Lo guardo e non capisco perché non s'avvicini ancora. Apre da lontano, col telecomando. Il cancello scorre lentamente. Entriamo nel caveau. Controllo l'esuberanza del piccolo Stefano, che vorrebbe prender confidenza con i tappeti di verde. Il cancello si richiude subito, dietro a noi, sbarrando l'entrata.
Il professore, dopo una stretta di mano, c'indica il percorso lungo il vialetto lastricato, che corre tutto intorno al giardino, e si ritira nel suo eremo, che da quel punto s'intravede appena. Restiamo subito soli, nel microcosmo botanico.

Rispettosamente c'incamminiamo in discesa, verso una forra, al fondo della quale un ruscello precipita fresco verso il fiume, a valle, scorrendo parallelo alla Gròina. Il corso d'acqua umidifica quel lato esposto, verticale, del giardino, dove le acacie si rivestono dell'edera per tutta la loro altezza. Non la vedo, ma Tisbe sfiora forse la rugiada, col suo piede leggero, nascosta timidamente dietro le piante, pronta a fuggire dalle ombre.

Siamo oltre la riva destra dell'Isonzo, e il fiume è sotto di noi. Sostiamo ad ammirare le varietà d'ibridi di magnolie caducifolie, che fioriscono in numero impressionante a calici variegati e brillanti, o a stelle, a miracol mostrare. La verticalità della gola si appiana poco dopo, verso levante, e appare la città, di fronte a Piuma e al Grafenberg. Terrapieni contenuti da vecchie traversine di ferrovia scendono, a terrazze, verso il fiume. Uno strato di segatura tappezza la superficie dell'humus, trattenendo l'umidità per le radici, dopo la pioggia. Azalee cominciano ad esplodere qua e là sul pendio, e cespugli con fiorellini gialli e sfolgorii purpurei, e ancora gemme rosa, minuscole. Altre azalee attendono, tra un mese circa si vedrà che colori esibiranno. Poi appaiono ai nostri occhi calici aperti, enormi, di magnolie screziate, da piante come candelabri a sette braccia, e soffici e tondeggianti cuscini di rododendro, in toni di colore delicati, dappertutto. Di fronte a questa varietà cromatica penso istintivamente alla Provenza lontana, con i suoi gialli, i rossi, gli azzurri, e il pensiero corre al "Doganiere", a Monet e a Renoir.
Dal sentiero vediamo la prospettiva della città, oltre il fiume, con il colle del castello. In fondo, il Gran Ciglione dell'altopiano di Tarnova, grigio sotto il cielo annuvolato. Verso Nemci e Loqua, ancora neve.

Un laghetto di ninfee, lungo il percorso, si rivela ricco di girini in agitazione: vita animale frenetica, in questo mondo vegetale. Ora il professore appare dall'alto della spianata erbosa, controlla se siamo sempre là, forse potremmo sbagliare strada. I bambini restano sul lastricato, non corrono tra i suoi tinti, delicati tesori di primavera, per fortuna. I timori del professore devono essersi attenuati, poiché egli scompare subito, come un fantasma.
Ci fermiamo su una panchina di tipo asburgico, con i braccioli a chiocciola: un tempo Gorizia ne era piena. Per fortuna non ho sottomano il libretto di Apollinaire, che qui mi piacerebbe gustare: mia moglie non approverebbe, perché faremmo tardi. Ogni cespuglio, ogni pianticella è contrassegnata da una targhetta. Vediamo, infatti, centinaia di cartellini. Clematis ci appaiono, e dovunque ammassi d'azalee, in tante dimensioni.

Camelie, gardenie, varie bulbose o tuberose che, ancora chiuse, attendono l'ora di realizzare le loro promesse: tulipani, gigli, narcisi, crochi o che altro? Alberi incredibili, a tronchi verticali e rami più volte potati, orizzontali, con rose rampicanti sul fusto. Esseri con corpi massicci e fiorellini delicati, color rosso rubino, piccolissimi e innumerevoli, sbocciati in anticipo sulle rose abbarbicate.


Non sono un botanico, mi piacerebbe conoscerlo più scientificamente, quest'eden straordinario. Mi chiedo dove ho già visto un giardino del genere: forse a Bordighera.

Di ritorno dal nostro giro, avanziamo verso il rifugio del professore, lo ringrazio per la sua cortesia davanti alla casa bassa, circondata da verande, in un tappeto verde, presso la piscina, e gli chiedo quante piante ornamentali abbia, nel suo giardino. Mi risponde:
"Centosettanta magnolie e cinquecento azalee, oltre al resto. Ma xè anche tanto lavoro, la sa?".
Lo immagino, il lavoro - e il sogno - di una vita. Adesso mi sorride.

Le immagini sono tratte dal volume "Alberi a Gorizia" - Edizioni della Laguna.