IPPOLITO PIZZETTI, UNA VITA PER GLI ELFI
di Milena Matteini (Rosanova, luglio 2006)

"Sono profondamente pagano: con la morte finisce il brutto, ma finisce anche il bello. Non so quanto mi resti da vivere, ma se dovessi rinascere, sarei orientato più verso il parco, come sto facendo in questi anni, che verso il giardino, di cui mi sono occupato per tanto tempo. Mi interessano gli alberi, mentre per anni ho pensato a fiori e cespugli, alla decorazione insomma. E però giusto che i singoli creino il loro giardino per un rapporto di continuità con la natura.
Ai miei studenti oggi cerco di far capire che gli alberi, con i loro piedi vegetali, affondano negli strati della terra e che nei vuoti della loro chioma, da sempre, la fantasia e la tradizione pagana hanno immaginato satiri, ninfe, elfi."
Il massimo della concretezza dunque e nello stesso tempo la libertà dell'immaginazione. Sono alcuni brani di una recentissima conversazione con Ippolito Pizzetti che non sentivo da tempo, e che ho ritrovato, come sempre, pronto a fare sintesi trasversali che incuriosiscono.
Sono le parole di un ottuagenario pieno di curiosità, il letterato Pizzetti, da mezzo secolo in prestito all'architettura del paesaggio.
Il curriculum è a dir poco strabiliante, suddiviso, come si deve, tra informazioni generali e categorie specifiche: attività accademica, pubblicazioni, concorsi, studi, progetti, collaborazioni, premi, che chiamerei più propriamente onorificenze, elencate per ultime. Ho scoperto così che nel 2002 è stato insignito del Premio Porcinai alla carriera; nel 2004 ha ricevuto la Laurea honoris causa in Architettura dall'università di Ferrara; nel 2005 ha ricevuto la Medaglia d'oro al valore culturale dal Presidente della Repubblica, restando però sé stesso, pensatore dall'aspetto semplice e alla mano, che va in giro con la sua bisaccia, quasi un viandante di altri tempi.
Figlio di lldebrando Pizzetti (1880-1968), fin da piccolo ha vissuto in un ambiente culturalmente stimolante, permeato di cultura tedesca: scoprendo con le istitutrici i personaggi del bosco e, più grande, leggendo in lingua originale i molti autori di fine secolo che, come Goethe, davano al paesaggio, alla sua descrizione e all'atmosfera che ne deriva, un ruolo di rilievo, un'importanza fondamentale.
Si è laureato comunque in Letteratura Italiana con una tesi su Cesare Pavese e nel volgere di pochi anni ha cambiato campo di attività, cominciando a progettare giardini. Alla conoscenza delle piante lo aveva inizialmente avvicinato il padre musicista, ma erano le piante orticole, e Ippolito si era reso presto conto di essere interessato soprattutto a quelle ornamentali.
Da allora, è la metà degli anni Cinquanta, è tutto un procedere. In un periodo in cui in Italia cominciava il benessere, è stato il primo a tenere rubriche sul tema del giardino, su giornali e riviste, a fondare collane: l'Ornitorinco con Rizzoli, Aritroso con Arcana, il Corvo e la Colomba con Franco Muzzio, attraverso le quali ha fatto conoscere autori, temi, argomenti sconosciuti al grande pubblico.
Dal 1974, per dieci anni, con la rubrica "Pollice verde" sulle pagine dell'Espresso, ha raccontato le vicissitudini delle piante del suo terrazzo romano. C'erano quelle che lo ricompensavano delle fatiche con generose fioriture, e quelle invece che non c'era verso progredissero. Cercava di capirne i motivi, sperimentava gli accostamenti, ma ogni articolo era uno spunto per parlare anche d'altro, un accenno alla musica, di cui è profondo conoscitore ("ma solo fino ai primi dodecafonici", sottolinea), il richiamo a un autore e a un'atmosfera particolare.
Da paesaggista o architetto di giardini, ha sempre ritenuto importante la conoscenza profonda delle piante, dei caratteri che contraddistinguono ciascuna specie, delle esigenze colturali, ma con semplici rudimenti di botanica, che è un'altra cosa e ben diversa.
Sempre dal curriculum, leggo che ha vinto, tra il 1984 e il 1998, dieci concorsi di progettazione, ha ottenuto un secondo premio e due menzioni speciali, su temi che vanno dal Parco dell'ex-Manifattura Tabacchi a Bologna, alla Bicocca a Milano, al parco pubblico di Secondigliano a Napoli, alla piazza per il Foro Italico a Roma, all'ampliamento del cimitero di Rho, al restauro dei giardini della reggia di Venaria Reale, vicino a Torino. Temi complessi e variegati che ha affrontato con disinvoltura, attingendo non solo all'esperienza pratica di una vita, ma soprattutto alla sua vastissima cultura, dando un contributo prezioso agli architetti con cui ha condiviso queste avventure. Occorrerebbe troppo spazio per illustrarli, seppure brevemente, per cui ritorno al suo modo di concepire il giardino e ai suoi più recenti pensieri sul parco.
Pizzetti ha sempre cercato nell'andamento del luogo, nella presenza di una vegetazione originale, la chiave con la quale operare. Ha cercato di realizzare giardini come spettacolo continuamente in evoluzione, in quattro parti, o se vogliamo in quattro atti, che convergono l'una verso l'altra: primavera, estate, autunno, inverno, dove i protagonisti, cioè le piante, devono avere un legame con quelle fuori il giardino. Ecco le sue radici di uomo di teatro da una parte e la conoscenza del giardino cinese dall'altro.
Ha sempre operato con questo principio, cozzando però poi con il fatto che la vegetazione originaria in Italia è quasi del tutto scomparsa. Ma con questa sua propensione per le piante originali di un luogo, non vuole essere confuso con un esasperato ambientalista: occorre anzi lasciare quelle libertà di inserimento eccezionale di varietà esotiche. Perché per tradizione il giardino è anche sperimentazione. Il giardino tuttavia è passato in secondo piano nei suoi interessi. Sono gli alberi adesso che dominano i suoi pensieri. Invita a piantare di nuovo, nei giardini, e nei parchi pubblici, che spesso sono la brutta copia dei giardini privati, gli alberi spoglianti che caratterizzavano il paesaggio italiano: querce, frassini, carpini, tigli, aceri campestri, e che sono quasi scomparsi, sostituiti da anonime e inalterabili conifere nei giardini e dall'agricoltura intensiva. Vorrebbe creare parchi che possano durare come la vita delle piante, anche tre-quattro-cento anni, piantandoli ad adeguata distanza l'uno dall'altro, valutando i pieni e i vuoti, l'ombra e il sole. Parchi da godere, con gli alberi nei prati e la gente, rispettosa, ma a camminarvi sotto, a sedersi sull'erba, a immaginare, tra le fronde, l'apparire di un elfo.